L’uomo si svegliò dal sonno profondo dei miti gridati, cantati e infine narrati attorno alla luce intensa del falò, alzò lo sguardo al cielo e fra le nubi sottili scorse la Luna riempire il vuoto della sera, guadagnare chiarezza all’ispessirsi del buio. Con lo sguardo inchiodato a quel corpo così vicino a noi, Ariosto vide il riflesso della Terra splendere sullo “specchio d’acciaio”, da altri mari, altre montagne, altre foreste abitato. La luna apparve affine a noi per forma, ma “altra”, e quindi differente, per contenuti, per ciò che rende la Luna luna. Difatti Ariosto ci “raguna” come in una soffitta ciò che si perde sulla Terra; Calvino il latte denso come ricotta. Non scelto a caso quest’ultimo, latte che “QFWF” raccoglie come dal seno di una madre la quale, mentre agli animali illumina il sentiero della selva, a noi uomini svela quello della vita, svela la ragione, il senno che proprio su quella terra Ariosto ci invita a recuperare.
Una volta riappropriatosi del suo senno, l’uomo avvicinò l’occhio a un “occhiale”, molto più grande di quello olandese, e osservò con attenzione una Luna dalla superficie “scabra e ineguale, con molte cavità e sporgenze”, una Luna desacralizzata. L’uomo conobbe così un cielo corrotto e malato, instabile e imperfetto, da punti fissi mobili costellato: una mappa dalle coordinate relative ed una natura autonoma dalla volontà dell’uomo e persino da quella di Dio. Pertanto fummo sommersi dalla paura di vedere la Luna, le stelle piovere su di noi e lasciare il cielo vuoto. Il timore di vivere senza valori si appropriava dell’uomo e “gli astri di Marcovaldo andavano a confondersi con i commerci terrestri”, con il frenetico incidere del consumismo, del progresso, della tecnica o metodo (scientifico), che, fissi sui tetti delle case con la loro insegna fosforescente, occupano il posto riservato alla Luna e attraggono l’uomo verso altre prospettive. Ed è lo stesso Calvino a ritrovare sulla Luna il primo cibo di cui ci nutriamo: il latte materno, colto da quella terra come il frutto della rinascita.
Si approda così su una riva sicura, una spiaggia fedele e famigliare viaggiando sul veliero della letteratura che, come dimostra Calvino, traspone le fredde e distaccate formule della natura in inchiostro fulgido e fluente di cui ci nutriamo – lo ricorda Machiavelli – come fosse cibo, per poi dare libero sfogo allo slancio creativo, alla fantasia, al sogno che zampillano dalle nostre menti e dai nostri cuori che pulsano di vita. La letteratura, come la biga alata di Platone o la barca di “QFWFQ”, ci fa volare verso la Luna, verso il cosmo, verso le stelle fisse da seguire quando si rischia di cadere negli abissi del moto incessante della città, della società, della rigorosa tecnica che procede avanti all’infinito.
Forse dovrebbe nascere in noi quell’ antico stupore che colse l’uomo alla vista della Luna che, muta e intangibile, ci osserva da lontano. Forse dovremmo chiederle di più su ciò che di noi ha imparato, suggerisce Calvino nella Lettera ad Anna Maria Ortese. O forse dovremmo cantare alla Luna e sentir risuonare l’eco di un grido lontano ma famigliare, quel grido: il primo dell’essere umano.
Eleonora Cacciola, IV A LSO
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