La Peste nera, il tifo, colera e influenza spagnola, sono solo alcune delle pandemie che si sono susseguite nel corso della Storia, devastando l’umanità. Di fronte a queste catastrofi l’uomo si ritrova impotente, in una corsa contro il tempo per salvare se stesso e chi ama.

È nei momenti di pericolo che possiamo osservare la parte più bella dell’essere umano e anche la parte più oscura: persone che sacrificano il loro tempo, le loro energie e il loro benessere per provare ad aiutare anche un solo bisognoso, e persone che speculano sul dolore altrui per arricchirsi.

In passato il ruolo di ospedale era spesso ricoperto dai conventi e dai monasteri, con i frati e le suore che dedicavano le proprie cure ai malati, spesso ammalandosi a loro volta, in nome della Fede e a volte, sempre in Suo nome venivano cacciati i cosiddetti “untori”, un termine seicentesco volto a designare coloro che diffondevano volontariamente il morbo della peste spalmando in luoghi pubblici appositi unguenti venefici.

Anche nel presente, attraverso le epidemie moderne, come l’ebola o il nuovo Coronavirus, l’uomo ha dato dimostrazione di non essere cambiato molto dal passato. Sebbene la scienza governi il sapere umano, insieme alla ragione logica, entrambi figli dell’Illuminismo settecentesco, si hanno ancora episodi di grande disumanità: in primis, puro razzismo infondato verso la popolazione colpita, divenendo così i nuovi “untori”, soprattutto se si tratta di Paesi orientali o africani. I Paesi europei, nonostante acclamino a gran voce l’idea che tutti gli uomini hanno gli stessi diritti e doveri, nella quotidianità si ritrovano a giudicare il diverso, dimostrando che in realtà parte della popolazione resta chiusa nella xenofobia.

Inoltre, l’avidità per la materia è sempre più evidente nella società moderna. “Chi prima arriva meglio alloggia” dice un proverbio, e i supermercati vuoti in queste settimane ne sono la prova. È inumano, dal mio punto di vista, ritrovarsi con scorte di cibo come in un periodo di guerra, soprattutto perché i viveri e le medicine non hanno mai smesso di essere state consegnate.

Dall’altra parte, come rincuoro, abbiamo le gesta quasi eroiche di medici, infermieri e volontari che da tutti i Paesi viaggiano in giro per il mondo per aiutare persone malate, mostrando un bellissimo esempio di filantropia.

Ogni tanto vediamo foto di medici e infermieri, stremati dalla stanchezza e segnati fisicamente dai dispositivi di protezione individuale, i volontari di Protezione Civile che sorridono dietro alle mascherine agli anziani che li ringraziano dalla finestra per avergli portato quel poco di spesa che basta per poter mangiare tutta la settimana, gente comune e famosa che, spero non per manie di grandezza, dona qualsiasi cifra in denaro per aiutare a salvare tutta la nazione.

Si deve però fare un grande sforzo, in questi tempi bui: siamo tutti vulnerabili, e non saranno i soldi a salvarci dalla morte o dal dolore.

Credo che da ogni epidemia si debba imparare qualcosa, per rendere l’umanità più cosciente dei punti deboli e delle virtù della società moderna, e quindi migliorare. Dalla paura, infatti, si può imparare una grande lezione di Humanitas, cioè l’ideale di attenzione e cura benevola tra gli uomini, che può insegnarci a prendersi cura del prossimo anche quando non c’è nessuna emergenza.

Temo, però, che quando tutto questo sarà finito, dopo tanta paura e tanto dolore, gli uomini torneranno a essere gli stessi egoisti di prima: continueranno a ignorare i veri eroi che ogni giorno salvano le vite delle persone e che non compaiono in schermi della televisione, resteranno avari dei loro beni materiali, e non guarderanno in faccia a nessuno pur di continuare a vivere.

Personalmente, quando questa epidemia sarà solo un ricordo passato, abbraccerò forte le persone che non ho potuto abbracciare durante i mesi di quarantena e continuerò a studiare per diventare medico, per scendere anch’io in prima linea a salvare le persone.

 

Chiara Ferrara, VI C LSA