Covid-19-Essere ragazzi al tempo della pandemia

23-04-2021, Articolo 

Nella giornata del 23 Aprile, noi giornalisti del Giornale d’Istituto Laurana Baldi abbiamo avuto l’onore di intervistare Francesco Gnucci, uno studente del Liceo Scientifico Laurana, e Maria Rosaria, ricercatrice del progetto di UNICEF che abbiamo approfondito, tramite delle domande ad entrambi, in questo articolo. Francesco ha, infatti, partecipato al progetto stesso; ecco le domande che gli abbiamo posto.

Potresti spiegarci in generale il progetto a cui hai partecipato?

“Il progetto è stato fatto dall’UNICEF per capire come la pandemia ha influenzato i ragazzi. Per farlo, sono stati creati dei “focus groups” in cui i ragazzi hanno potuto parlare di loro stessi, delle loro esperienze, e svolgere una particolare attività che consisteva nel creare un “ragazzo tipo” e pensare a come avrebbe potuto affrontare un’analoga situazione di pandemia.”

 Sei riuscito a confrontarti con gli altri ragazzi del focus group?

“Sì, sono riuscito a confrontarmi con gli altri anche se venivano da diverse parti d'Italia — infatti il progetto ha coinvolto 16 scuole superiori, situate in 16 regioni diverse — e, in generale, ero d'accordo con i loro pensieri. Abbiamo parlato dei nostri sentimenti ma anche di come il Governo ha gestito la situazione.”

Hai avuto la percezione di essere stato ascoltato dagli specialisti? 

“Sì, mi sono sentito capito, in quanto sapevano come ascoltarci; il dialogo che si è creato è stato sicuramente costruttivo.”

Che sensazioni hai provato nel partecipare a questo progetto? È cambiato il tuo punto di vista sul covid-19 dopo questa esperienza? 

“Allora si, diciamo che c’è stata una parte in cui abbiamo potuto elencare le caratteristiche del "personaggio tipo" della nostra età e di come questa persona avesse vissuto questa situazione. Quindi questa è stata un’occasione per ascoltare punti di vista differenti. È stato interessante sentire il pensiero e l’esperienza delle altre persone con il Covid. Questo per me è stato un arricchimento, grazie al quale ho avuto la possibilità di mettermi nei panni di altri ragazzi. Mi ha insegnato a ricordarmi che ci sono molte altre persone che la pensano diversamente da me.”    

Abbiamo poi avuto modo di intervistare Maria Rosaria, il cui ufficio collabora con il comitato italiano di UNICEF e il suo ufficio di ricerca. Anche a lei abbiamo posto delle domande sulla stessa esperienza:

Quali attività sono state svolte e che obiettivi avevate?

“Il progetto è partito dall’ufficio di ricerca di UNICEF con l’obiettivo di studiare le esperienze dei ragazzi, le loro opinioni sulla pandemia e le restrizioni create dal governo al riguardo. 

Il progetto è internazionale ed è composto da due progetti pilota in Italia e in Canada; è anche qualitativo, in quanto si lavora direttamente con i ragazzi attraverso dei gruppi composti da circa sei o otto persone, per poi procedere con delle interviste individuali e contributi in altra forma, ad esempio attraverso la scrittura o la creazione di disegni.”

Come le è sembrato sentir parlare tutti questi ragazzi? 

“Quando si fa ricerca, anche per i ricercatori stessi non è sempre facile. Infatti anche noi proviamo sensazioni nuove durante ogni progetto e in particolar modo in questo poiché la pandemia ci ha coinvolti tutti, in fondo. L’impatto è stato sulle vite di tutti, certe cose risuonano. I risultati non sono ancora pronti, ma per me l’esperienza è stata senza dubbio interessante in quanto ho trovato cose nuove ma anche cose decisamente inaspettate.”

Ci sono stati progetti simili?

“Ci sono stati dei "focus groups" particolari, mirati a soggetti più vulnerabili: minori non accompagnati, ragazzi e ragazze transgender, ragazzi con background svantaggiati o ragazzi sotto l’ala dei servizi sociali. Inoltre, l’intero progetto era stato pensato per essere svolto di persona, ma per via delle normative Covid è cambiato tutto e ci siamo spostati online.

Il progetto di ricerca è molto particolare per i ricercatori anche perché sono gli studenti che danno qualcosa a noi, infatti siamo noi che “abbiamo bisogno” dei ragazzi, ovvero di soggetti di ricerca che ascoltiamo e da cui prendiamo dati su cui, poi, facciamo analisi. Per noi c’è sempre la domanda etica: “cosa diamo indietro ai ragazzi?”. In alcuni progetti di ricerca qualitativa si pagano i ragazzi per partecipare, in altri si offrono dei buffet oppure, quando si fanno ricerche con ragazzi che sono in condizioni economiche molto svantaggiate, si da’ loro da mangiare. Il fatto che per i ragazzi sia stata una piacevole esperienza e una buona occasione per fare conoscenza con ragazzi di altre città, per noi è stato un respiro di sollievo. 

Un comune sentimento riscontrato dai ragazzi è stato il piacere di capire che un po’ tutti avevano vissuto le cose allo stesso modo, con lo stesso tipo di apprensione e di problematiche. 

Dobbiamo ringraziare nel progetto di Italia il “YOUNG ADVISOR BOARD” (YAB), un gruppo di consiglieri giovani, tra gli 11 e i 21 anni. I più grandi (dai 15 anni in poi) fanno parte del gruppo YOUNICEF, gruppo di ragazzi volontari che consultiamo periodicamente per chiedere loro dei consigli su come fare alcune parti della ricerca. E’ stata fatta una “call” con i ragazzi dello YOUNICEF dove gli veniva chiesto se volevano partecipare al YAB, così in seguito hanno fatto domanda e poi sono stati scelti. Per quanto riguarda i più piccoli, invece, abbiamo sfruttato delle conoscenze dell’UNICEF con comitati locali per selezionarli. Noi ricercatori inizialmente dicevamo <<Ci sono 8 persone? Ok, allora in una scuola facciamo un "focus groups" con queste 8 persone e poi ne facciamo un altro con un’altra scuola>> ma i ragazzi hanno risposto: <<no, è molto meglio mischiare dei ragazzi che appartengono a scuole diverse di regioni diverse perché ai nostri coetanei piacerebbe di più parlare con sconosciuti.>>.

 I ragazzi della scuola media, invece, ci hanno spiegato che avrebbero preferito fare parte di gruppi misti costituiti sia da sconosciuti che da compagni di classe. Seguendo il loro consiglio poi abbiamo rimodulato il progetto di ricerca in maniera diversa e ciò è stato un’azione positiva.”

Secondo lei è stato difficile entrare in sintonia con i ragazzi per farli parlare della loro esperienza?

“Direi di no, nel senso che comunque per la ricerca abbiamo collaborato con volontari, quindi con persone che avevano sicuramente voglia di parlare. Ovviamente c’è chi parla di più, c’è chi parla di meno. Tutto sommato però non è stato difficile.”

Anna Vitali, III A LSO 

Sara Bozzi, III A LSO