La donna all’inizio del secolo scorso assume i più svariati connotati, forme, colori; dalla crudele seduttrice Giuditta di Klimt alla franchezza provocatrice di Donna in camicia di Derain fino alla sensualità ostentata di Marzella di Kirchner; eppure la femminilità non è mai banalizzata ma osservata attentamente sotto la lente d’ingrandimento del profilo psicologico. La donna si protende in avanti, il suo volto in primo piano sfida l’osservatore che si sente pervadere da un certo disagio ed è costretto a domandarsi chi ha costretto la donna a tramutarsi in femme fatale, da quando il colore dipinge con prorompente grazia felina una modella o perché una fanciulla ha le labbra così rosse e marcate. Il ruolo che la società ha designato per la donna non lascia spazio né all’innocenza né alla pudicizia, per affermarsi ella deve sfoggiare una maschera fatta di sensualità, per sopravvivere nel brutale mondo degli adulti la ragazza deve perdere il proprio candore e farsi simbolo di un eros colmo di malizia. La superficialità di chi costringe la donna a ridursi in tale modo andrebbe tagliata come la testa di Oloferne senza alcuna pietà. L’atteggiamento di sfida di Giuditta, nella prima versione di Klimt, inonda interamente la tela e il suo sguardo beffardo forse promette a chi la guarda che la sua sorte sarà la medesima del generale assiro Oloferne, sedotto e decapitato dalla nobile vedova ebrea qui ritratta con le sembianze di Adele Blochbauer, nobildonna della borghesia viennese contemporanea a Klimt. Ella si proietta circondata da un paesaggio stilizzato che richiama l’arte bizantina mentre la tridimensionalità del suo corpo in antitesi con le sue vesti finemente decorate ma bidimensionali rimandano all’arte gotica trecentesca. Giuditta è un’eroina, simbolo di coraggio e amore per la patria sotto gli occhi del popolo ebraico, valenza che ancora mantiene grazie anche alla complicità del colore oro che rimanda al campo semantico del sacro. Giuditta è ancor più emblema della seduzione che trionfa sulla forza bruta, il suo fascino ammaliante le ha permesso di salvare la sua città e Klimt ce lo mostra tutto curando la posa sensuale, enfatizzata dal taglio verticale del dipinto, la veste semitrasparente; la bocca semiaperta e gli occhi socchiusi sanciscono il trionfo della morte che ha portato via per sempre il temibile Oloferne, caduto per mano di quelle suadenti labbra. Non a caso la sua testa è dimenticata in basso a destra, vista di scorcio, oltretutto tagliata per oltre la metà dal bordo della cornice. Ironicamente Giuditta pare accarezzare i capelli del generale con le dita affusolate tanto amabili quanto spietate. Giuditta valica i confini tra morte e amore opponendo la delicatezza del suo incarnato, la lucentezza dei suoi folti capelli neri alla crudeltà del suo compito, che l’ha portata sì ad essere circondata dalla sacralità dell’oro e da pietre preziose, ma a caro prezzo, macchiando per sempre la sua immagine con la presenza lugubre della morte. Il periodo giovanile parigino di Derain di una vita oziosa da bohemien a Montmartre può essere suggellato dall’immagine della Donna in camicia seduta sul bordo di un letto semivestita, consapevole della propria bellezza ostentata con disinvoltura. Il suo volto è grazioso così come il suo trucco, l’abito è leggero, attillato mentre le sue gambe incrociate sono in pesanti calze scure. In particolare, pur essendo il suo volto orientato verso destra, ella osserva con decisione chi la guarda,forse compiacendosi di essere apprezzata per la sua sensualità. L’uso del colore personale ed espressivo è reso dalle campiture omogenee ma contrastanti tra loro, in particolare l’associazione di colori complementari arancio dei capelli e rosa del volto col blu del vestito e delle calze. Lo stesso accade con lo sfondo rossastro che si staglia su arredi bluastri e verdini. La composizione è costruita su sovrapposizione di forme, a noi sta cercare di comprendere le misure e le effettive distanze tra gli oggetti, abolendo di fatto la prospettiva. Il dipinto di Derain risulta equilibrato, mostra un espressionismo piacevole che rivela la sicurezza e il brio della modella, che mostra al pittore il suo volto più seducente divertendosi nel farlo, presentandosi pronta a giocare con la propria femminilità. Derain nel cogliere con sollazzo questo aspetto si distacca dall’ideale di bellezza acidula di Kirchner. La sua Marzella è una ragazza nuda dall’apparenza fragile e indifesa circondata da colori molto forti, tanto pesanti quanto il suo trucco nerastro sugli occhi ed eccessivamente rossastro a contornare le labbra. Anch’ella si rivolge allo spettatore inducendolo a sentirsi a disagio, imbarazzato fino a vergognarsi di ciò che osserva, ovvero una bambina costretta a sfoggiare una impudicizia innaturale e forzata. La figura esile di Marzella non ha nulla di equilibrato né di grazioso, ella pare essere consumata dalla malattia, il verde del suo incarnato stride negli occhi di chi la guarda. Le campiture di colore omogeneo, puro e fortemente antinaturalistico rivelano l’instabile figura che sta per essere schiacciata dal verde acido dello sfondo in netta antitesi col rossastro e rosino del suo corpo. Il volto pallido e imbronciato ha un che di sgradevole e Marzella lo sa, è consapevole della falsità dipinta sul suo viso ma deve rassegnarsi ad indossare quella maschera se vuole sopravvivere e farsi strada nel futuro tutt’altro che roseo che l’attende.
Giulia Etiopi, V C
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