Foreign fighters

Ragionano da delusi, da disperati, da ribelli. Dare un senso alla propria vita, benessere, giustizia sociale, uno stipendio, una casa… sono gli obiettivi a cui hanno teso invano. Questi giovani sono affascinati dalla possibilità  di affermarsi, di essere finalmente vincenti e sono “catturati da un pensiero veloce, divisivo, moderno, binario, e non da ragionamenti complessi, o da discussioni teologiche”. Lo dice in maniera emblematica il Centro Studi sulla Radicalizzazione del King’s College di Londra con queste parole: “Lo Stato Islamico pensa in 140 caratteri, e non in 140 pagine”. Si comprende bene come l’Islamic State possa trovare terreno fertile per le sue “piante”: ecco un giovane, magari male scolarizzato, a cui far credere di poter diventare forte, a cui offrire quel punto di riferimento non trovato nel proprio paese, a cui promettere di fare della propria morte una strada per diventare un eroe acclamato anche dai posteri. 

Quanto costa tutto questo? Giusto l’odio dichiarato verso il nemico e la vita. Per circa 35/40 mila giovani il prezzo è buono, tanto da lasciare la propria terra, unirsi all’Is e diventare terroristi a tutti gli effetti. Non è fantascienza e neppure un incubo, ma realtà. Sono i cosiddetti foreign fighters, combattenti stranieri, stranieri in quanto decidono volontariamente di combattere una guerra che non è la loro. Sono soprattutto ragazzi provenienti da paesi nordafricani e mediorientali, in primis dalla Tunisia, ma anche da Francia, Svezia, Belgio, Germania, Inghilterra, Italia; sono fragili, deboli, vengono avvicinati in un momento di demoralizzazione, di sconforto.

Le carceri, le moschee più radicali e il web giocano un ruolo fondamentale: è fin troppo facile per i predicatori diffondere il virus fondamentalista. Ora, anche se il Califfato sul campo non esiste più, le idee hanno messo le radici ed abbattere un’ideologia così tragicamente attraente è molto complicato. Ciò nonostante, se è vero che l’unione fa la forza, insieme, moralmente e politicamente, possiamo provare a fare la nostra parte, partendo dalla radice del problema. Con la consapevolezza che questi giovani appartengono a diversi strati della società e che la faccenda è enormemente più complicata di quel che possiamo pensare, non possiamo arrenderci!

L’Is trova la sua forza nell’ignoranza, nelle debolezze e nella paura ed è proprio da qui che dobbiamo partire, ponendo la nostra massima attenzione sui possibili reclutati. Per chi soffre, per chi affronta situazioni problematiche, per chi deve far fronte ad un passato travagliato, l’aiuto di noi uomini dalla vita, forse, più semplice, deve esserci. Le alleanze tra i governi non devono essere un’utopia ed il nostro dovere, in quanto esseri solidali “umani”, non è solo quello di parlarne rischiando di fare, allo Stato Islamico, propaganda, ma anche quello di agire.

Non possiamo lasciare che un ventenne pensi che morire sia meglio che vivere, non possiamo essere indifferenti. Come il latino Terenzio ci ricorda: “Siamo uomini, nessun essere umano ci è estraneo”.

Bartolucci Valentina, Carbini Denys, De Donatis Tiago, 

Etiopi Giulia, Gamba Denise III C

 

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