I DONI DEL TEMPO

Il tempo è oggi un tema inflazionato, spesso abusato nei discorsi motivazionali e portato come capro espiatorio per i propri fallimenti. Quel grande, minaccioso e insaziabile Chronos, che si nutre di ciò che crea, sovrasta e determina ogni nostra azione. Misurabile per la scienza, inafferrabile per l’uomo, appare talvolta come un freno alla libertà individuale, lo strumento che, secondo Fabrizio De Andrè, Dio dovette adottare per controllare l’uomo una volta che questi ebbe acquistato la conoscenza del bene e del male. “Per paura che ormai non avesse padroni lo fermò con la morte e inventò le stagioni” (Un Blasfemo F. De Andrè).
L’ostile natura, che ritroviamo nel Dialogo della Natura e di un Islandese di Leopardi, dispensa una vita breve, che per la maggior parte “è assegnata allo scadere”, mentre solo pochi istanti sono concessi alla “maturità e perfezione”.
È un tratto distintivo dell’uomo l’ambizione all’immortalità, non riuscendo a trattenere lo spirito nella limitatezza della forma mortale.

Ma a che prezzo? La noia, l’abitudine, l’ozio. Non è forse nella consapevolezza della morte che acquista valore la vita?

Le Ninfe, nei Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese, invidiano agli uomini la loro natura finita, riconoscendo nel tempo il fondamento stesso della libertà. L’immortalità è una libertà “da”, statica e inattiva. Nella mortalità vi è la libertà di agire.
Il tempo diventa quindi un dono, il cui valore, come tutti i beni preziosi, è inversamente proporzionale alla quantità disponibile. Secondo Seneca, non siamo “poveri di vita, ma prodighi” e sprechiamo “gran parte di questa facendo male, la massima parte facendo nulla, la vita intera facendo altro”. Il peccato è dunque quella prodigalità che Dante colloca nel quarto cerchio dell’inferno, perché dovuta all’incapacità di mettere a frutto i doni ricevuti.
“Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora” è il monito che troviamo nella parabola delle dieci vergini. L’incertezza e l’attesa del futuro, insieme alla certezza della morte, ci pongono di fronte alla duplice natura dell’uomo rispetto al tempo.
Da una parte la consapevolezza della determinazione del proprio destino, dall’altra la percezione del potere del proprio libero arbitrio.
Secondo il passeggere, nell’operetta morale di Leopardi, “la vita bella che conosciamo non è quella già passata, ma quella ancora da venire” e questo è il più bel dono del tempo: permettere la speranza attraverso l’incertezza.
Controverso e ricco di infinite sfaccettature, il rapporto dell’uomo con il tempo è come un interminabile inseguimento, nel quale l’uomo è destinato a soccombere, ma che gli permette di vivere e imprimere la propria impronta nel mondo.
Nel tentativo di misurarlo, capirlo o pesarlo scorre inesorabilmente quello spicchio di infinito concessoci.

Elena Bogliolo VA