Il termine greco mystèrion, da cui il latino mysterium, deriva dal verbo mỳo: esso significa “mi chiudo, sono chiuso” .
Da qui ha origine la parola italiana “mistero”.
Esso è quindi una condizione interiore, la cui percezione, come afferma il teologo Vito Mancuso, “si dà come inquietudine e al contempo come meraviglia”.
È la sensazione che si prova davanti a qualcosa di sconosciuto, inspiegabile con le conoscenze che si possiedono.
Come ci insegna la storia dell’uomo, il mistero viene inizialmente con il mythos, la religione.
Successivamente, dall’esperienza sensitiva, attraverso il fenomeno, si trae una conoscenza che si può sempre attestare.
E’ naturale perciò credere in qualcosa che non sia certificato da un’esperienza scientifica: questo, però, deve essere solo una condizione e non può andare a precludere un eventuale progresso sulla conoscenza.
Del resto, nell’epoca odierna, governata dal relativismo, è ben noto che una legge è valida finché una nuova non la confuta, fornendo un grado sempre più alto di verità. Per non sprofondare in un’incertezza esistenziale, è giusto assumere una posizione, avere delle certezze e non essere scettici verso ogni forma esistenziale, dall’altro lato, anche se difficile, occorre non cedere nel dogmatismo ed essere disposti ad ammettere che ciò in cui si crede possa essere fallace.
Galileo Galilei, sulla lettera indirizzata al Padre benedettino Benedetto Castelli, riflette sulle verità cosmologiche e fisiche dell‘universo contenute nelle Sacre Scritture, affermando che esse mirano a “Persuadere a gli uomini quegli articoli e proposizioni che […] non potevano per altra scienza né per altro mezzo farcisi credibili, che per bocca dall’intesso Spirito Santo”.
Lo scienziato asserisce che il Dio cristiano, avendoci donato anche i sensi, abbia voluto fornirci un altro mezzo per conoscere, per cui non è necessario credere nelle scarse e contraddittorie verità astronomiche della Bibbia.
Avere fede, quindi, può essere visto come la spiegazione di qualcosa che i sensi e la scienza (ancora) non possono chiarire.
Lo stesso concetto è espresso in maniera più radicale dal filosofo e matematico Piergiorgio Odifreddi né Il vangelo secondo la scienza.
Viene identificato un “Dio tappabuchi” come “La spiegazione di tutto ciò che la scienza lascia ancora inspiegato”.
D’altra parte, c’è chi afferma che la fede sia una forma di conoscenza superiore alla scienza, senza tuttavia degradare quest’ultima.
Ad esempio, il professore Marco Bersanelli scrive di una buona parte di scienziati che vive la fede “proprio come allargamento della ragione, la quale trova nel metodo scientifico uno dei modi con cui rapportarsi al mistero della realtà”. In un’omelia di Benedetto XVI inoltre, questi scienziati “Non rinunciano né alla ragione né alla fede, le valorizzano entrambe fino in fondo, nella loro reciproca fecondità”.
Questo rapporto fede–ragione, in effetti, è un tema discusso sin dall’epoca della Patristica, con Agostino che consigliava: “Credere per intendere, intendere per credere”, ponendo quindi la conoscenza razionale come uno strumento per chiarire e spiegare più a fondo la verità di Dio, cosa che fece anche Tommaso d’Aquino, in maniera più radicale nel XIII secolo, epoca d’oro della Scolastica.
É proprio dall’interno della Chiesa, tuttavia, che i due processi fraseologici non sono stati considerati conciliabili: Ockham è stato costretto a scindere fede e ragione, ponendo fine al tentativo della loro conciliazione, obiettivo della Scolastica; qualche tempo prima, inoltre, Averroè aveva sostenuto l’importanza e la superiorità della conoscenza sensibile.
La religione, quindi, non deve confondersi con quella superstitio che Lucrezio condanna nel suo De Rerum Natura, che opprime l’anima degli uomini.
È lecito che la fede fornisca le proprie verità, per offrire delle certezze nella vita: l’importante è che restino valide fino alla loro messa al vaglio della feroce logica e del metodo scientifico, che permettano alla conoscenza di progredire senza timorosi ostacoli.
Margherita Hack scrive: “La scienza non riesce a dare una risposta totale. Quindi il mistero c’è certamente. Se quando morirò dovessi scoprire che c’è la vita eterna, direi a Dio che ho sbagliato. E forse, tutto sommato, sarebbe bello essersi sbagliati”.
Nicholas Pieretti IV B
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