L’Anima dell’Azzardo

Episodio 1 - L’entrata a Nehemoth

 

 Venezia, isola di Poveglia, l'isola più misteriosa della laguna veneta, famosa per le sue leggende e storie di fantasmi.

“Casinò Nehemoth. Sembra il luogo adatto dove trovare la fortuna che sto cercando.” dissi guardando l’imponente palazzo dalla facciata barocca. 

Un uomo altissimo, persino più di me, mi apparve davanti, sotto la statua di un angelo senza testa che sovrastava la volta del grosso portone in legno di mogano minuziosamente intarsiato. 

Il misterioso uomo mi diede una pacca sulla spalla e disse ridendo “Anche tu invitato a Nehemoth, giovanotto? Oh, oh, oh, sembri proprio un ragazzo simpatico, io mi chiamo Gustav, Sir Gustav Wellington.”. Mi porse la mano e la luce del sole mise in evidenza i lineamenti marcati del suo volto e i calli sulla sua pelle. Era vestito in maniera distinta, l’anello d’oro che portava al dito catturò la mia attenzione:  vi era rappresentato sopra il simbolo di un sole. 

“Allora, come ti chiami, ragazzo?” disse lui.

Scossi la testa - “Mi perdoni, buonuomo, ero assorto nei miei pensieri. Mi chiamo Van Lebowski. Piacere di conoscerla.”. Gli strinsi la mano e mi avviai con lui all’interno del luogo che non avrei mai più dimenticato, anche volendo.

Entrammo nella reception dell’hotel-casinò. Un tappeto cremisi si stendeva sotto i nostri piedi dall’ingresso alle varie sale e il marmo del pavimento rifletteva gli spettacolari lampadari di vetro di Murano che ornavano il soffitto. La receptionist ci stava aspettando dietro il bancone con un sorriso stampato in faccia. 

Wellington le si avvicinò e lei disse “Buongiorno signore. Come posso aiutarla?”

“Sono sir Gustav Wellington ed ho ricevuto quest’invito dal vostro casinò”

“Signor Wellington, benvenuto, la stavamo aspettando. Questa è la chiave della sua stanza, la numero 237. Buona permanenza e si diverta!” - disse sorridendo. 

“La ringrazio, signorina, e buona giornata!”

Mi avvicinai e presentai anche io il mio invito. La signorina mi diede la chiave della camera 238, giusto accanto a quella di quello strano ma simpatico signorotto anglo-tedesco.

Decisi di salire in camera per riposarmi un po’ e prepararmi prima della serata. La camera, anzi la suite, era arredata in perfetto stile seicentesco, con mobili pregiati riccamente decorati. Mi gettai sul letto a baldacchino, avvolto in un mare di coperte e cuscini e tutto si annebbiò, poi per un attimo tutto diventò nero e mi ritrovai a vagare in un labirinto di cunicoli stretti e freddi che sembravano scendere verso il centro della Terra. Urla e lamenti mi circondavano, mentre io continuavo a correre senza sosta in quel groviglio di pietra. Mi sentivo come se stessi per soffocare e le mie gambe sembravano farsi sempre più pesanti. Ad un certo punto uno strano fumo uscì violentemente dalle pareti e mi svegliai all’improvviso. “Solo un incubo, è stato solo un incubo”, pensai. Mi alzai dal letto e controllai l’ora. “Sono quasi le 19:00, meglio che inizi a prepararmi”. 

Entrai in bagno, riempii la vasca di acqua bollente e olii profumati e mi abbandonai a quel calore rigenerante. Dopo una ventina buona di minuti uscii, mi avvolsi nel mio soffice accappatoio e tornai in camera a vestirmi. Scelsi l’abito più elegante che avevo in valigia, un tuxedo blu elettrico che mi era costato una fortuna. Mi guardai allo specchio: i miei soliti capelli arruffati facevano a pugni con il resto del mio abbigliamento e decisi quindi di passarci un po’ di brillantina per domarli. Presi il mio orologio da taschino sul comodino e iniziai a scendere le scale. Mentre procedevo, continuai a pensare al sogno di prima, sembrava così vero, era come se il fumo mi fosse penetrato fin dentro le ossa.

La hall era già stracolma di gentiluomini e gentildonne che parlavano di affari, azioni e college per i figli davanti ad un tavolo da buffet imbandito di qualsivoglia pietanza. Diverse presenze eccentriche catturarono la mia attenzione: primo tra tutti il gigante buono Wellington, poi un’arzilla vecchietta con un cane Shih Tzu in braccio, un emiro accompagnato dalle sue sette mogli e infine una meravigliosa ballerina di swing, la più bella donna che i miei occhi avessero mai visto dopo la mia amata e defunta Edith. Dopo il buffet,  venni distratto dalla voce di quello che pareva il proprietario del complesso, che salì sul palchetto e fece il discorso di apertura della stagione del casinò. I giochi iniziarono. Mi incamminai verso il banco del Poker, con fare naturale e un drink in mano, per rendere più difficile ai croupier capire se io fossi un “contatore di carte” o meno. Dopo circa un’ora stavo andando forte, contando le carte e tenendole a mente era un gioco da ragazzi e, a volte, anche sfruttando il riflesso negli occhiali del croupier, avevo già vinto quasi un milione e trecento lire. Notai, tra l’altro, che anche sir Wellington se la stava cavando molto bene, anche se aveva assunto uno stile di gioco un po’ troppo aggressivo, quasi da maniac (nel gergo chi punta e rilancia continuamente). Un urlo lontano squarciò il brusio della sala e improvvisamente le luci si spensero.